Sono una donna in viaggio. Qualcuno mi definirebbe una “ricercatrice”.
Fin da bambina, ero affascinata dalla libreria di mio padre. Ero così piccola che mi sembrava immensa. Papà è stato un neuropsichiatra e un grande studioso. Proprio in quella libreria ho scoperto solo nel 2019 che già dagli anni ottanta del secolo scorso, approfondiva autori come Erickson, Lowen, Watzlawick, Haley. Lì, custoditi tra gli scaffali più alti.
È stata una sorpresa con il sapore delicato della sincronicità: li ho ritrovati proprio nel momento in cui io stessa li stavo studiando.
Fin da piccola, era la curiosità il mio propulsore, anche quando spiavo dall’uscio della sala di attesa dove i pazienti, adulti, adolescenti, bambini, aspettavano di essere ricevuti.
Quante volte ho chiesto di poter entrare per salutare!
Solo poche volte, però, mi era concesso e, quando non capitava, entravo di nascosto. Come direbbe James Hillman, il mio daimon si andava formando dentro di me. In quel periodo della mia vita, lo faceva sotto forma di una curiosità smodata, di un non sapere stare ferma, del desiderio di ballare e cantare, in preda alla più totale euforia.
Riconosco ora che quelle erano espressioni di una fame di conoscenza che si manifestava come amore per l’arte, quella del canto in particolare, che ho coltivato negli anni della mia adolescenza, mentre frequentavo il liceo classico, nella mia città di origine, Palermo.
Non sapevo dove sarei approdata dopo il diploma, ma ricordo molto chiaramente la sensazione di essermi trovata di fronte ad un bivio: il canto o la facoltà di medicina. Ho scelto l’ars medica, promettendo a me stessa che il canto e la musica sarebbero sempre stati al mio fianco e che sarebbe arrivato un momento in cui avrei avuto occasione di esprimere appieno questa mia passione.
Solo anni dopo mi sarei accorta che anche la medicina è un’arte e che il nostro corpo canta, in quanto oscillatore e recettore ed emittente di frequenze.
Ma a quel punto del mio viaggio, non ne ero affatto consapevole.
Così è iniziato il tempo dell’università, un periodo di studio appassionato e serrato, di amicizie, approfondimenti e, naturalmente, di musica, nel poco tempo libero che restava. Ogni materia era un passo in avanti verso la meta.
Ma tra gli agguati della vita, la paura è stata la prima a presentarsi e a minare il cammino, travestita da pensieri di inadeguatezza.
Ho scelto di affrontarla e, durante l’estate al termine del primo anno di medicina, ho trascorso un mese di volontariato al Cottolengo di Torino.
Ero convinta di fare un’esperienza a contatto con la diversabilità e mi sono dovuta ricredere quando ho scoperto che mi avevano assegnato al reparto di oncologia, la lungodegenza: il primo contatto con il dolore e la morte. Mi trovavo in un posto dove molti facevano esperienza del Passaggio, quello con la P maiuscola, dove i familiari incontravano il dolore del distacco.
E io, studentessa al primo anno, avevo un solo strumento: la mia presenza, il mio stare accanto, il mio farmi prossimo.
La consapevolezza del dolore, per la prima volta: mi sono lasciata attraversare dalle emozioni dei pazienti, dei familiari e dalle mie ed è stato come un innamoramento. Avevo già scelto la specializzazione e non ho mai più avuto un solo dubbio.
Così, maniche rimboccate, ho preso la rincorsa, come un treno che conosce bene meta e tragitto e, appena ho potuto, ho varcato la soglia del reparto di Oncologia del Fatebenefratelli di Palermo, come studente interno.
Insieme alla laurea è arrivata la consapevolezza che dovevo partire per formarmi. E così è stato: ho conseguito la specializzazione in Oncologia al Policlinico Gemelli di Roma.
E proprio negli anni della specializzazione sono nati i primi due figli, il cui arrivo mi ha catapultata nella complessità dell’esperienza della gravidanza, del parto e del postpartum. I momenti di fragilità mi hanno permesso di raggiungere un’altra intuizione, vissuta sulla mia stessa pelle: corpo, psiche e relazioni sono così intrecciate da essere un continuum.
È sulla scia di questa nuova consapevolezza che ho scritto la tesi della mia specializzazione in psiconcologia, un elaborato che poi ho sviluppato anche durante il mio dottorato di ricerca.
Ed è al termine della specializzazione che affronto un nuovo viaggio, questa volta verso Bergamo.
I primi tre anni ho lavorato presso l’Humanitas Gavazzeni e ho dato il benvenuto ai miei altri due figli.
Già dopo il terzo, però, cresceva il mio disagio esistenziale e professionale. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovare risposte risonanti con me nella farmacologia. La risposta ad una patologia così complessa come il cancro non poteva essere solo il farmaco.
Era davvero questo che avrei fatto per tutta la vita?
È stata questa domanda a farmi iniziare un altro viaggio, questa volta (lo sapevo bene) dentro me stessa. Perché solo nel momento in cui sono me stessa, posso essere una buona terapeuta. Già, “terapeuta”: l’etimologia di questo termine è collegata al risveglio della coscienza, Mia, in primo luogo.
Ecco. Ho continuato con una nuova consapevolezza: il risveglio della mia coscienza e la missione di risvegliare la coscienza di chi sceglie di incontrarmi.
Così è cambiato il mio modo di cercare, di vedere e di scegliere tutte le tappe della mia formazione.
E così mi sono formata per acquisire nuovi strumenti, nuove competenze, quelli che troverete nelle pagine di questo sito.
Buona lettura